Palazzo
Te
« …maravigliose
fabbriche, le quali
non
abitazioni di uomini, ma case degli Dei »
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(Giorgio
Vasari, Vite)
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L’isola del Tejeto
sorgeva al di fuori della cerchia delle mura cittadine, circondata
dalle acque del lago Paiolo: il marchese Francesco II Gonzaga, marito
di Isabella d’Este, l’aveva già scelta agli inizi del
Cinquecento come luogo di addestramento dei suoi pregiatissimi ed
amatissimi cavalli.
Morto il padre e
divenuto signore di Mantova, Federico decide di trasformarla nel
luogo dello svago e del riposo, dei fastosi ricevimenti con gli
ospiti più illustri, dell’intima alcova ove potersi sottrarre ai
doveri istituzionali assieme alla sua amante Isabella
Boschetti. Abituato com'era stato sin da bambino all'agio e alla
raffinatezza delle ville
romane, trova in Giulio Romano colui che riesce a dare forma compiuta
alla sua idea di isola felice.
Il
suo genio creativo si alimenta moltissimo dell’esempio del suo
maestro, Raffaello, ma a differenza di altri discepoli che rimangono
fedeli al suo stile, guarda anche a Michelangelo, di cui si ritrova
molto nella possanza e nel dinamismo delle figure che per mano di
Giulio Romano prendono vita nei dipinti e negli stucchi di Palazzo
Te. Con
l’aiuto di Baldassarre Castiglione, ambasciatore gonzaghesco a
Roma, Federico riesce così a far arrivare a Mantova, nel 1524, il
migliore degli allievi di Raffaello, cui trasmette il suo sogno,
quello di esaltare la vita della corte mantovana.
Fiero,
sicuro, capriccioso, vario, abondante et universale, dalla maniera
sempre anticamente moderna e modernamente antica, dà vita a ciò che
meriterà il soprannome di Palazzo dei lucidi inganni.
L’ambiente
più famoso e stupefacente di Palazzo Te è la Camera dei Giganti.
Vero e proprio unicum
nella storia dell’arte moderna, poiché Giulio Romano vi propone
una sperimentazione pittorica originale ed ineguagliata per secoli.
L’ambiente
è concepito come un insieme spaziale continuo, ove l’invenzione
pittorica interagisce con la realtà e lo spettatore si sente
catapultato nel mito.
I
limiti architettonici sono dissimulati dalla pittura, che si stende
senza soluzione di continuità su pareti e volta ed, in origine,
coinvolgeva anche il pavimento costituito da ciottoli di fiume che
proseguivano, dipinti, alla base delle pareti.
La
vicenda che viene messa in scena è quella della Caduta
dei Giganti:
gli esseri più potenti che Gea avesse partorito, volevano
sostituirsi agli dei, ma il loro tentativo di conquistare il monte
Olimpo è destinato a fallire. L’ira di Zeus scatena contro di loro
la furia degli elementi e colpiti con fulmini infallibili vanno
incontro ad un terribile destino. Al cospetto della schiera numerosa
degli dei dell’Olimpo ed al disotto di un cielo descritto con un
magnifico sfondato prospettico al cui centro si trova un tempio
circolare, l’aquila trionfa mentre sulla terra è il caos.
La
rappresentazione è sublime metafora sia politica, come astuto
omaggio alla potenza dell’imperatore Carlo V, che etica come
exemplum di superbia umana punita e monito per gli stessi sovrani.
Sette
anni bastano a Giulio Romano ed ai suoi magnifici collaboratori per
allestire la loro più indimenticabile scenografia.
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