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sabato 14 giugno 2014

ROAD TO MANTOVA - La storia di Palazzo Te (di Claudia Zerbinati)


Palazzo Te

« …maravigliose fabbriche, le quali non abitazioni di uomini, ma case degli Dei »
(Giorgio Vasari, Vite)

L’isola del Tejeto sorgeva al di fuori della cerchia delle mura cittadine, circondata dalle acque del lago Paiolo: il marchese Francesco II Gonzaga, marito di Isabella d’Este, l’aveva già scelta agli inizi del Cinquecento come luogo di addestramento dei suoi pregiatissimi ed amatissimi cavalli.
Morto il padre e divenuto signore di Mantova, Federico decide di trasformarla nel luogo dello svago e del riposo, dei fastosi ricevimenti con gli ospiti più illustri, dell’intima alcova ove potersi sottrarre ai doveri istituzionali assieme alla sua amante Isabella Boschetti. Abituato com'era stato sin da bambino all'agio e alla raffinatezza delle ville romane, trova in Giulio Romano colui che riesce a dare forma compiuta alla sua idea di isola felice.

Il suo genio creativo si alimenta moltissimo dell’esempio del suo maestro, Raffaello, ma a differenza di altri discepoli che rimangono fedeli al suo stile, guarda anche a Michelangelo, di cui si ritrova molto nella possanza e nel dinamismo delle figure che per mano di Giulio Romano prendono vita nei dipinti e negli stucchi di Palazzo Te. Con l’aiuto di Baldassarre Castiglione, ambasciatore gonzaghesco a Roma, Federico riesce così a far arrivare a Mantova, nel 1524, il migliore degli allievi di Raffaello, cui trasmette il suo sogno, quello di esaltare la vita della corte mantovana.

Fiero, sicuro, capriccioso, vario, abondante et universale, dalla maniera sempre anticamente moderna e modernamente antica, dà vita a ciò che meriterà il soprannome di Palazzo dei lucidi inganni.
L’ambiente più famoso e stupefacente di Palazzo Te è la Camera dei Giganti. Vero e proprio unicum nella storia dell’arte moderna, poiché Giulio Romano vi propone una sperimentazione pittorica originale ed ineguagliata per secoli.
L’ambiente è concepito come un insieme spaziale continuo, ove l’invenzione pittorica interagisce con la realtà e lo spettatore si sente catapultato nel mito.
I limiti architettonici sono dissimulati dalla pittura, che si stende senza soluzione di continuità su pareti e volta ed, in origine, coinvolgeva anche il pavimento costituito da ciottoli di fiume che proseguivano, dipinti, alla base delle pareti.
La vicenda che viene messa in scena è quella della Caduta dei Giganti: gli esseri più potenti che Gea avesse partorito, volevano sostituirsi agli dei, ma il loro tentativo di conquistare il monte Olimpo è destinato a fallire. L’ira di Zeus scatena contro di loro la furia degli elementi e colpiti con fulmini infallibili vanno incontro ad un terribile destino. Al cospetto della schiera numerosa degli dei dell’Olimpo ed al disotto di un cielo descritto con un magnifico sfondato prospettico al cui centro si trova un tempio circolare, l’aquila trionfa mentre sulla terra è il caos.
La rappresentazione è sublime metafora sia politica, come astuto omaggio alla potenza dell’imperatore Carlo V, che etica come exemplum di superbia umana punita e monito per gli stessi sovrani.
Sette anni bastano a Giulio Romano ed ai suoi magnifici collaboratori per allestire la loro più indimenticabile scenografia.

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